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Uno degli aspetti più belli del viaggiare è il conoscere sé stessi.

Capita che si voglia partire per volersi allontanare dal proprio passato e per andare verso la propria nuova vita, un po’ come ha fatto Cheryl Strayed, il cui libro vi ho presentato . In altri casi si parte perché si deve partire, ma quando ci si ritrova nel bel mezzo del viaggio ci si scopre a ritrovare se stessi.

Oggi vi vorrei parlare di uno dei film che ho amato di più, la cui storia è tratta dalla vita e dal viaggio del protagonista, Heinrich Harrer: sto parlando di Sette anni in Tibet, o come l’ho ribattezzato io, un viaggio per ritrovare se stessi.

ritrovare sé stessi

daniele salutari tramite unsplash.com

La trama: partire per il Tibet, partire per ritrovare se stessi

Siamo in Austria, nel 1939, alle soglie della Seconda Guerra Mondiale.

Il nostro protagonista è Heinrich Harrer, un noto scalatore di monti, nonché membro del partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori. Egli viene scelto dal partito per partire per l’impresa di scalare le vette dell’Himalaya, per raggiungere la nona vetta più alta al mondo: il Nanga Parbat.

Egli parte con la compagnia di altri scalatori ed in particolare con Peter Aufscnaiter.

La sua vita sta andando a rotoli (nonostante la moglie incinta egli parte per l’impresa), il suo stesso ego lo sovrasta e la sua arroganza lo presenta agli occhi come un uomo superbo ed orgoglioso. Ma siamo solo agli inizi del nostro viaggio.

Tentano nell’impresa, ma a causa delle valanghe di neve, la comitiva si deve ritirare. Tuttavia vengono fermati ed arrestati al confine con l’India (paese inglese), dal momento che sono cittadini del Terzo Reich. Rimarranno nel campo di detenzione di Dehradun fino al 1942, quando riusciranno a scappare.

Dopo mille avventure (alcune fanno anche sorridere) arrivano in Tibet e lì inizieranno una nuova vita, con un nuovo ritmo, nuove musiche, nuove lingue da imparare; nuovi costumi da conoscere e nuovi amori da scoprire…

Arriverà anche l’incontro con il giovane Dalai Lama con il quale sboccerà una grande e profonda amicizia: si creerà un legame così potente e forte, da cambiare profondamente anche Harrer stesso.

Non vi svelo che cosa accade laggiù. Per scoprirlo dovete vedere il film.

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Evgeny nelmin tramite unsplash.com

Lo straordinario mondo del Tibet

Ogni volta che penso al Tibet, lo immagino come un mondo magico, lontanissimo e misterioso.

Quasi una realtà a sé stante, che vive e continua a vivere indisturbata seguendo i propri tempi e le proprie tradizioni. Penso ai templi impregnati dal dolce profumo degli incensi, penso ai monaci buddhisti ed alle montagne innevate.

Penso e ritengo che il Tibet sia il paese ideale per poter ritrovare sé stessi.

Guardando ai reportage dei grandi fotografi ed anche all’esperienza di vita di Harrer, sono solita pensare che il Tibet aiuti anche a comprendersi meglio, a scoprire una parte di sé, del proprio inconscio che non sapevamo di avere.

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Sergio capuzzimati tramite unsplash.com

Ciò che più mi affascina è il paesaggio; la maestosa catena montuosa di montagne che dona il proprio nome alla regione medesima: l’altopiano del Tibet.

Rappresenta un mondo così lontano, quasi mistico, dove il corpo si riduce in anima. Un mondo quasi etereo, le cui radici sono rappresentate dai piedi delle montagne, ma la cui anima si libra libera ed alta nel cielo, oltre le cime dell’altopiano.

L’Altopiano del Tibet è un mondo aguzzo, altissimo, che buca il cielo con le sue cime di oltre 8000 metri. Sembra rappresentare l’ingresso del paradiso sulla terra; è il paese dove persino la terra ed il cielo sembrano ritrovare sé stessi, in una congiunzione data dalle montagne medesime.

Vi riporto una delle frasi del film che mi ha colpito di più:

Dalai Lama: “Dimmi cosa ti piace delle montagne”.
Heinrich Harrer: “Mi piace l’assoluta semplicità, ecco cosa mi piace. Quando sei in scalata la tua mente è sgombra, libera da qualsiasi confusione: sei concentrato e, ad un tratto, la luce diventa più nitida, i suoni sono più ricchi e tu sei invaso dalla profonda, potente presenza della vita”

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ben gao tramite unsplash.com

Ritrovare se stessi, un dialogo con il Dalai Lama

Ciò che mi ha commosso ed affascinato di questo film è il profondo legame che scaturisce tra il giovane Dalai Lama e Heinrich Harrer. Mi è sempre piaciuto come le culture trovano il modo di avvicinarsi ed imparare dall’altro qualcosa di nuovo. Ed è ciò che accade in questo film.

In tutto il film è presente quest’incontro, questo comprendere e conoscere l’altro per ritrovare se stessi. La sete di sapere da parte del giovane Dalai Lama è innocente, pura e affascinante. Vuole sapere tutto di quel mondo lontano da cui Harrer è partito; come si parla, come si gioca, che cosa si legge e che cosa si mangia. Ascoltando l’altro si conosce sé stessi.

La curiosità, ovviamente, è anche di Heinrich, il quale, attraverso questi incontri nel palazzo del giovane Dalai Lama, inizia a conoscere ed a comprendere la civiltà segreta del Tibet, allora ancora celata al mondo intero.

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Evgeny nelmin tramite unsplash.com

In questo dare e ricevere, pertanto, entrambi gli amici iniziano il proprio percorso per ritrovare sé stessi, un percorso arduo, faticoso, ma che porta benessere e miglioramento. Un viaggio che porta tanto cambiamento, ma un cambiamento buono, perché, finalmente si impara ad ascoltarsi nel profondo ed a comprendersi più di quanto lo si facesse prima.

Il Tibet, insomma, è entrato non solo nel cuore di Heinrich Harrer, il quale continuò ad andare a far visita al Dalai Lama negli anni; ma anche nel mio e, penso, anche di quanti hanno potuto vedere il film.

Sette anni in Tibet è un film potente, immenso, esteso come l’Altopiano medesimo. È un film-viaggio che porta alle pendici della propria anima: è un film che ci permette di ritrovare se stessi.

Se non lo avete ancora guardato, ve lo consiglio. Non ne rimarrete delusi.

“Possano i viaggiatori trovare la felicità ovunque vadano, e senza sforzo possano realizzare ciò che si sono prefissi, e arrivati a riva sani e salvi possano essi riunirsi con gioia ai loro familiari” Dalai Lama

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James wheeler tramite unsplash.com